09/01/11

Irlanda ed Eurolandia, a saltare è il mercato


Articolo "made in Italy", da www.economiaepolitica.it, sito di economisti accademici ma non allineati, da cui proviene il famoso "Appello degli economisti" contro le politiche di austerità per non abbattere il debito pubblico ma stabilizzarlo e rilanciare il paese.
Qui un articolo di  Domenico Moro, in cui si analizza la situazione di Eurolandia...

Buona lettura:

La difficile situazione dell’euro, con l’estensione della crisi del debito sovrano all’Irlanda e potenzialmente a Portogallo e Spagna, è il prodotto di varie contraddizioni, che si approfondiscono, intrecciandosi tra loro. In primo luogo, il debito sovrano è figlio del modo in cui si è tentato dei risolvere la crisi del 2001, con il sostegno artificiale alla domanda. Il costo del denaro è stato ridotto quasi a zero, inondando di liquidità i mercati finanziari[1] e spingendo le banche a concedere mutui immobiliari con grande disinvoltura. I prezzi delle case sono lievitati, creando una bolla e permettendo alle famiglie, grazie ai rifinanziamenti dei mutui, di acquistare a credito e sostenere la crescita dell’economia in primo luogo degli Usa e poi di Regno Unito, Spagna, Portogallo e Irlanda, e indirettamente dei grandi paesi esportatori[2]. Quando la bolla immobiliare è scoppiata e i prezzi delle case sono crollati al di sotto dei mutui, le famiglie sono diventate insolventi e le banche hanno accumulato perdite enormi. Per scongiurare una catena di fallimenti bancari sono intervenuti gli Stati, i cui debiti sono cresciuti repentinamente. In Irlanda, il debito pubblico netto, che nel 2007 era il 12% del Pil, è schizzato in alto quando lo Stato è intervenuto a garantire obbligazioni bancarie pari al 30% del Pil[3]. Dunque, a saltare in Irlanda, come altrove, non è stato il pubblico, ma il privato, cioè il tanto decantato mercato.

Tuttavia, il debito pubblico di Irlanda (65,5% del Pil), e Spagna (53,2%) non appare altissimo se confrontato con il 200% del debito giapponese e con il quasi 100% di quello Usa[3]. Perché allora l’effetto dell’aumento del debito sovrano è così devastante in Eurolandia? Perché Giappone e Usa hanno una banca centrale che può acquistare titoli direttamente dallo Stato, stampando dollari o yen, nel caso in cui i mercati rifiutino di farlo. La Bce può intervenire solo sui mercati secondari. L’euro è in sé una anomalia, essendo una moneta senza Stato, ovvero una unione monetaria senza unione politica. Il debito diventa insostenibile perché non esistono né una vera banca centrale, né politiche fiscali e di bilancio comuni. In aggiunta, a differenza di quanto accade in Giappone, in Irlanda il 75% del debito sovrano e il 50% del debito delle banche sono controllati dall’estero. In una situazione simile sono anche Grecia e Portogallo. Di conseguenza, è più facile che gli investitori disinvestano e che gli anelli deboli della catena dell’euro siano presi di mira da fondi esteri. Del resto, il debito sovrano è assicurato tramite credit default swap, un massa enorme di denaro che, a livello mondiale, è per il 72% in mano delle prime cinque banche Usa[4].
Il sistema finanziario mondiale è ancora oggi dominato dagli Usa, che però scontano i debiti sovrano e commerciale più grandi del mondo. La possibilità di rifinanziarli è legata alla attrazione di liquidità dall’estero grazie al dollaro, che svolge il ruolo di valuta di scambio e di riserva mondiale. Ma un dollaro troppo debole e un debito federale troppo alto mettono in difficoltà tale meccanismo[5]. Infatti, a partire dallo scoppio della crisi la Cina, il maggiore acquirente di titoli di stato Usa, ha cominciato a diversificare le sue riserve valutarie, e negli ultimi mesi ha garantito liquidità proprio a Grecia, Portogallo e Spagna. Dunque, un euro troppo forte, considerato che l’Europa è l’unica area con un sistema finanziario che si avvicina agli Usa, è un pericolo per gli statunitensi.  Con l’Irlanda a novembre si è ripetuto quanto accaduto circa un anno fa, allorché, con il cambio dell’euro a 1,50 contro il dollaro, ci fu l’attacco speculativo alla Grecia e la moneta unica crollò a 1,19.
Ma  le difficoltà dell’euro hanno una radice anche nel rapporto tra la Germania e gli altri paesi dell’eurozona. Se la Bce ha un ruolo limitato e i singoli paesi europei non possono ricorrere alla politica monetaria ciò è dovuto alla Germania, che ha posto queste condizioni per mettere in comune moneta e banca centrale. Inoltre, l’aumento della liquidità nei Paesi periferici dell’eurozona è stato una manna per la bilancia commerciale tedesca, che presenta il maggiore saldo positivo a livello mondiale[6]. Infatti, l’aumento della liquidità in un paese, in assenza di adeguati aumenti della produzione industriale, va a vantaggio dell’industria dei paesi da cui importa. Negli ultimi dieci anni la produttività della Germania, che già partiva su un piano di vantaggio rispetto agli altri paesi, è aumentata ancora mentre i salari tedeschi diminuivano dell’1% annuo. Normalmente, in un caso del genere, l’industria degli altri paesi avrebbe potuto difendersi dall’accresciuta competitività tedesca svalutando. Con l’introduzione dell’euro questo non è stato più possibile. In questo modo, mentre le famiglie dei Paesi deboli dell’eurozona si indebitavano, la bilancia commerciale dei loro paesi - soprattutto nei confronti della Germania - peggiorava. Nel frattempo, il forte surplus commerciale e la relativa scarsezza dei consumi interni, dovuta alla moderazione salariale, hanno accresciuto il risparmio tedesco che non è stato investito in Germania – dove evidentemente c’è una sovraccumulazione di capitali sotto forma di eccesso di mezzi di produzione - ma si è diretto all’estero[7]. In questo modo, la Germania e le sue banche sono diventate i maggiori creditori di Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna e, quindi, le maggiori interessate ai loro “salvataggi”[8].
Quando è nato l’euro, ci si è affidati ai privati e alla autoregolazione dei mercati, smantellando il ruolo pubblico nell’economia, liberalizzando e privatizzando in tutti i settori. Al contempo, non ci si è posti la necessità di una forma di vera unità politica da affiancare all’unità monetaria. Infine, la deregolamentazione e precarizzazione del mercato del lavoro hanno portato alla riduzione del salario reale a fronte di aumenti di produttività in molti casi fortissimi. Di conseguenza, si è accentuata la divaricazione crescente tra aumento della produzione di merci e riduzione della capacità di assorbimento delle merci stesse da parte del mercato, che è tipica del capitalismo. Una contraddizione che illusoriamente si è pensato di risolvere con l’economia a credito e scaricando all’estero la sovrapproduzione di merci e di capitali.
Il mercato autoregolato non regge e al suo posto va recuperato l’intervento della mano pubblica e dello Stato, come è stato giustamente evidenziato nella Lettera degli economisti. Il ritorno dello Stato non deve consistere nella socializzazione delle perdite e nel sostegno finanziario subalterno al privato, come sta avvenendo negli USA e come è previsto nel modello Marchionne-Fiat. È di un altro tipo di intervento statale che c’è bisogno. Un intervento che si concretizzi in una politica fiscale progressiva, nella ripubblicizzazione dei settori privatizzati, e soprattutto che, in antitesi all’anarchia del mercato, rilanci una vera programmazione democratica dell’economica.

* Economista, consultente Filmcams-CGIL
[1] La Fed Usa ha immesso nel mercato del credito solo tra il 2001 e il 2006 2 trilioni di dollari e tra il 2008 e i primi mesi del 2009 un altro trilione e mezzo per salvare le banche. Vedi Luciano Gallino, Con i soldi degli altri, Einaudi, Torino 2009, p.90.
[2] Cfr. Niall Ferguson, Ascesa e declino del denaro, Mondadori, Milano, 2010, cap. V.
[3] Guido Tabellini, “Senza politica fiscale addio Ue”, Il Sole 24 ore, 28 novembre 2010.
[4] Con il debito dei singoli stati Usa in bancarotta (California, Alabama, ecc.) il debito complessivo supera il 100%. Considerando la nazionalizzazione degli istituti assicurativi Freddie Mac e Freddie Mae arriva al 140%. Inoltre il deficit statale Usa è il 9% del Pil, mentre quello greco è l’8,5%. Vedi The Economist, November 27th 2010.
[5] Vedi Morya Longo, “Il debito di Mr O’Sullivan in poche mani straniere”, Il Sole 24 ore, 25 novembre 2010.
[6] Chi sostiene che il dollaro debole aiuta le esportazioni Usa e quindi il riequilibrio della bilancia commerciale non considera il fatto che gli Usa non sono più da tempo una potenza industriale.
[7] Il saldo positivo della bilancia commerciale tedesca degli ultimi 12 mesi è di 210 miliardi di dollari, quello cinese è di 186 miliardi. Vedi The Economist, November 27th 2010.
[8] Un caso da manuale. Vedi in K. Marx, Il capitale, libro III, capitolo XIV “Cause antagonistiche”.
[9] I salvataggi della Ue consistono in prestiti cui si applicano tassi di interesse superiori al 5%. Carlo Bastasin, Berlino-Ue matrimonio d’interesse, Il Sole 24 ore, 25 novembre 201
http://www.economiaepolitica.it/index.php/europa-e-mondo/irlanda-ed-eurolandia-a-saltare-e-il-mercato/




1 commento:

  1. Ottimo articolo , sintesi efficace di quella che è la realtà economica oggi .
    C'è un piccolo problema , i consigli su ciò che bisognerebbe fare andranno sicuramente a vuoto, perchè non c'è più una classe politica autonoma, cioè di prendere decisioni e di avere una visione socio economica indipendente. Se ciò fosse arriverebbero rapidamente alle stesse conclusioni a cui è arrivato questo articolo. Ma loro sono seduti su un treno impazzito e senza più controllo , il cui biglietto è pagato dai padroni della macchina capitalistica, o meglio è pagato da quella moltitudine di cosidetta classe media-lavoratrice, la quale con un inganno ideologico (capitalismo= benessere per tutti+libertà di arricchirsi per pochi) si fà sistematicamente rapinare.
    Quindi ben vengano articoli come questo, ma poi bisogna trovare soluzioni concrete , altrimenti ci toccherà scendere fino all'inferno prima di poterci risollevare.

    A. Costa

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